Holy shitballs! This is sincerely a dream come true for us. One of the most influential and truly seminal underground rock bands of the past 25 years is finally getting the revisited and resurrected love they deserve. Seriously, if it weren’t for Bitch Magnet, the 90s punk and indie rock landscape would look and sound very different. Mogwai, Don Caballero, Superchunk, Sunn O))), Rodan, June of 44 and countless others owe a debt to Bitch Magnet. After being out-of-print for nearly 15 years, we are ecstatic to bring you Bitch Magnet’s entire recorded output, collected in one mind-blowing 3xCD or 3xLP package! Remastered from the original, restored analog master tapes and packaged in stunning triple gatefolds packed with dozens of rare and never-before-seen photos and flyers, this is a sight and sound to behold! Trust us, DO NOT SKIP THIS! This is a pre-order and will ship on or around November 15. Also, don’t miss Bitch Magnet’s rare reunion gigs in Europe, Asia and the UK, including an appearance at ATP!
Siamo onesti: in realtà i brani più rappresentativi dei Seam di Sooyoung Park (già nei Bitch Magnet) dovrebbero essere “Sweet Pea” e “Bunch” (tratte dall’album più riuscito, “The Problem With Me“, e l’ultima in coda al post con un video). Eppure per chi ama (l’ordine è casuale) basket, musica, college, North Carolina ed NCAA è impossibile non indicare “King Rice“, dal primo disco “Headsparks”. Una canzone dedicata ad un playmaker (King Rice appunto, attualmente, credo, Assistant Coach a Vanderbilt) da un fantastico gruppo di Chapel Hill. Difficile chiedere di più.
Il fatto che “Two Nuns And a Pack Mule” sia uscito insieme a “Umber” e “Tweez” potrebbe far dimenticare qualsiasi altro avvenimento dell’epoca, caduta del muro e morte di George Simenon compresi.
La storia, pertanto, dovreste conoscerla alla perfezione. Prima furono i Big Black: ciclonica recessione emotiva, scoramento assoluto, brutta musica (quindi perfetta, si intende), scetticismo e maniacalità selvaggia…eccetera eccetera. Insomma, c’era “Kerosene” e da un po’ era arrivato Steve Albini.
Poi lo scioglimento ed il progetto Rapeman (con Rey Washam e David Sims): durata minima e necessaria (stagione 88-89, si sa: l’Ep “Budd” come meraviglioso incipit e l’album in questione) per raggiungere- nell’ambito- l’apice richiesto. Dove finiscono i Sonic Youth ed iniziano gli Slint hanno scritto e detto. Forse andando anche qualche metro avanti (e, per inerzia, indietro) aggiungiamo. Noise tribale, hardcore introverso eppure esplicito nel negare il prima fregandosene del dopo. Più cerebrale nell’essere sempre alienante: trattasi di rabbia metallica creata (anche) da un rifiuto assoluto per il compromesso, urlando e strepitando con essenzialità ossessiva. A suo modo un disco definitivo destinato ad esserlo anche fra vent’anni, a dispetto di tutti i figli dei fiori.
E magari chi ha vent’anni, nel 2009, lo incontriamo a qualche bel concerto post/hardcore/rock/math. Felice (come noi, si intende) e preso. Eppure quando il ragazzo aveva il ruolo di neonato c’era già tutto, o quasi. Anzi, volendo dirla tutta, c’era pure prima. Tuttavia il 1989 un suo significato particolare lo ha, almeno per chi da certa musica è dipeso. Perchè alla fine della fiera Slint, Rodan, For Carnation, June Of 44, Don Caballero, Gastr Del Sol e Shellac li abbiamo amati (in quanto vissuti più o meno concretamente), ma lo scatto decisivo (per comprensione, attitudine ed atteggiamento) è difficile non riferirlo ai Bitch Magnet, definitivi nel rendere concreta la visione di “Skag Heaven” degli Squirrel Bait (ossia quelli che c’erano prima).
Il punto di congiunzione, lo sanno anche i muri, è Mr. David Grubbs, aggiuntosi dopo l’Ep “Star Booty” (Roman Candle, 1988) a Sooyoung Park, Jon Fine e Orestes Delatorre (studenti dell’Oberlin College in Ohio). Il substrato era prevedibile: hardcore e retaggi alla Big Black, necessari ieri come oggi. A fare la differenza sono, però, le addizioni (con sottrazioni annesse): straniamenti sonici, noise intollerante, nichilismo ormai esplicito, destrutturazioni implosive e matematica intellettuale. Rallentando, con convinzione e senza remore, una violenza ricercata. Non rinnegata, quindi, quanto trattenuta e algebrica nella costante rumorista. Ed allora “Umber” (Communion,1989 se non lo si fosse capito) gira come una trottola impazzita nel toccare ogni angolo delle future espressioni: da “Motor“, accessibilità per estremismi alla Husker Du, a “Navajo Ace“, lancinante gioventù sonica in salsa punk, dalla sospensione nera in “Douglas Leader” a quella albiniana (per indolenza rabbiosa) di “Goat-Legged Country God“, dalla contrapposizione apatia/fulminiesaette con “Big Pining” al noise d’eccellenza in “Punch And Judy“. Poi il clamore arriva per le pre-slintiane “Clay” e, soprattutto, “Americruiser“, anticipo chiaro di reiterazioni recitate e rottura palese con il passato.
Un percorso logico nelle controversie. All’epoca, forse, solo intuite, come gli ultimi sentori di un disco decisivo per importanza storica ed attuale per sostanza. Era il 1989, non è il 2009.